Un mondo senza banane (?) Ricerca

Il banano è una pianta erbacea che produce uno dei frutti più coltivati al mondo. Dal 1970 al 2007 la produzione è passata da 30 milioni di tonnellate ad 80 milioni di tonnellate grazie all’aumento di superficie del 63% e all’aumento della produttività del 58%. Secondo dati FaoStat (2012) la produzione si attesta ora intorno alle 101.992.743 tonnellate. La coltivazione avviene per il 57% della produzione in Asia, per il 27% in America Latina e nei Caraibi e per un 16% in Africa. Il rimanente 1% si divide equamente tra Europa e Oceania. Da notare che 5 nazioni (in ordine di quantità: India, Cina, Filippine, Equador, Indonesia) producono quasi il 60% del totale. Le diverse aree sono caratterizzate da sistemi di coltivazione diversi: zone a produttività molto bassa (25 t ad ettaro) tipiche delle zone caraibiche e zone ad produttività alta (50/60 t ad ettaro) tipiche dell’America Latina. Purtroppo però qualcosa ha turbato (e continua a farlo tutt’ora) la produzione di questo frutto, il più esportato al mondo. La varietà che conosciamo e mangiamo ora, la banana Cavendish, è originaria di Cina e Vietnam e fu coltivata a partire dal 1903. Il suo consumo e la coltivazione su larga scala comincia e soppianta le altre varietà solo nella seconda metà del ‘900. Ora, la banana Cavendish occupa il 99% del mercato (FAO). Prima del 1950 la varietà che occupava la quasi totalità del mercato era la Gros Michel (Stover, 1962).

Prima di andare avanti nella storia della banana bisogna ricordare una cosa: i banani coltivati sono piante infertili che producono frutti senza semi. La pianta antenata del banano da cui traggono origine le nostre varietà si chiama Musa acuminata ed è una pianta diploide. Musa acuminata produceva frutti molto piccoli e pieni di semi grossi e neri. Durante la storia una qualche mutazione è avvenuta e ha creato una pianta triploide e sterile. Vista la grossa differenza di frutti, la varietà triploide è stata conservata e coltivata. Essendo la pianta sterile (si, una pianta convenzionale, mica un ogm), l’unico modo per conservarla è “clonarla”. Semplificando si prende un tralcio della pianta che si vuole riprodurre e si ripianta. Il risultato è che la variabilità genetica tra le varie generazione è nulla, sono piante geneticamente identiche. La clonazione è una tecnica usata in molte colture, in primis la vite. Anche l’induzione della sterilità è una tecnica usata tutt’ora. A differenza dell’origine del banano però, non viene lasciata all’evoluzione (ci sarebbe troppo tempo da aspettare), ma si sono scoperte sostanze, tipo la colchicina (totalmente naturale, cioè estratta da una pianta), che impediscono la corretta divisione cellulare raddoppiando i cromosomi. Esempi di uso di questa tecnica sono le angurie senza semi, i mandarini senza semi, i pompelmi senza semi, che a differenza di ciò che qualcuno crede, non sono stati selezionati da contadini col cappello di paglia che rimirano l’orizzonte.

Eravamo rimasti agli anni ’50 in cui cominciò a scomparire la varietà Gros Michel e prese piede la Cavendish. E’ molto probabile che tutte le persone nate dopo il 1950 abbiamo sempre mangiato una e una sola varietà di banana, la Cavendish. Questo cambiamento epocale per il settore delle banana è stato reso obbligatorio dalla cosiddetta malattia di Panama, malattia causata da un fungo, il Fusarium oxysporum, detto anche Foc race 1. La prima descrizione dei sintomi di questo Fusarium fu fatta da Bancroft nel 1876 in Australia e nel 1890 fu individuata in America Centrale (Ashby, 1913). Il sintomo principale del fungo è il disseccamento delle foglie, partendo da quelle più vecchie, fino a quelle più giovani.  Questo sintomo è stato per molto tempo difficile da riconoscere poichè l’assenza di potassio mostra la stessa sintomatologia soprattutto in climi umidi come quelli dove cresce il banano. Non avendo possibilità di difendersi da questo fungo i produttori sono stati costretti ad usare un’altra varietà, la Cavendish, resistente a questo ceppo del fungo. Le perdite di raccolto nei primi 50 anni del ‘900 sono state stimate intorno a 2,5 miliardi di dollari (Ploez, 2005).

Negli ultimi decenni però un altro ceppo di Fusarium, chiamato TR4 (tropical race 4), è tornato ad attaccare le coltivazioni di banane, in questo caso anche e soprattutto le varietà Cavendish. Recentemente (2012) la FAO, attraverso il World Banana Forum, ha lanciato un forte allarme diretto alla comunità scientifica e ha proposto dei protocolli di gestione dei bananeti per riparare le colture da contagi. E’ evidente che in questo caso la risposta deve attingere alla genetica poichè la difesa chimica, oltre a risultare non del tutto efficace in questo caso, è anche insostenibile dal punto di vista ambientale e anche economico. Le rese si sono già ridotte di molto e il problema non si arresta. Bisogna anche tener conto che le economie dei paesi coltivatori di banane si fondano su questa coltura e che molte persone vivono cibandosene e lavorando nelle piantagioni. In Uganda l’arrivo del TR4 ha provocato una contrazione delle rese del 40% e negli altri paesi africani e asiatici non va molto meglio.

Dagli anni 80 ad oggi sono state studiate molte varietà ottenute attraverso metodi tradizionali per mettere fine a questo problema, ma l’unico prodotto ottenuto ad ora è una banana, usata a Cuba, dal sapore più simile ad una mela che ad una banana. Il dirigente di Chiquita ha annunciato che la sua azienda, dopo 40 anni di insuccessi nella ricerca varietale, investirà sullo sviluppo di nuovi fungicidi vista la riluttanza dell’opinione pubblica nell’uso delle biotecnologie. Quando ho trovato questa citazione ho avvertito un senso di sconforto, perchè si parla spesso di sostenibilità ambientale, di rispetto per l’ambiente, ma evidentemente non siamo sempre disposti a perseguire questo fine. A tal proposito i coltivatori biologici dovrebbe essere i primi a voler usare questi tipi di soluzione. Sta di fatto che ormai le prospettive sono chiare: o si trova il gene della resistenza e lo si “mette” nel genoma delle banane coltivabili oppure la banana sparirà o diventerà un bene molto raro.  Non oso pensare alle conseguenze economiche di ciò e non all’impatto sulle multinazionali (che saranno capaci di trovare altri campi di business), ma ai piccoli agricoltori e a chi vive grazie a questa coltura. L’alternativa è aspettare che l’evoluzione faccia il suo corso e che possa venire alla luce una mutazione casuale in grado di rendere la banana resistente.

Recentemente però degli scienziati sembrano aver trovato in Oman una banana semi selvatica resistente al TR4 e sono riusciti ad individuare il meccanismo biologico che le conferisce questa qualità (http://www.researchgate.net/publication/225974972_Ecology_and_morphological_traits_of_an_ancient_Musa_acuminata_cultivar_from_a_mountain_oasis_of_Oman).

La storia futura della banana è tutta da creare e le biotecnologie sembrano sempre più una freccia necessaria al nostro arco. In questo caso si smonterebbe un altro facile luogo comune: gli ogm causano riduzione della biodiversità. Posto il fatto che l’agricoltura e la preferenza del consumatore sono i primi nemici della biodiversità, facciamocene una ragione, ci troveremmo in una condizione di poter aumentare, tramite le biotecnologie, la variabilità genetica delle banane. Non a diminuirla.

 


“Una volta nella vita avrai bisogno di un dottore, di un avvocato, di un poliziotto e di un prete, ma ogni giorno, tre volte al giorno hai bisogno di un agricoltore”

Ho 26 anni, vivo tra Milano e Bergamo. Gli studi (scienze agrarie, specializzazione zootecnia) mi hanno permesso di appassionarmi a molti aspetti dell’agricoltura vista la sua complessità (che è soprattutto la sua bellezza e la sua fonte di fascino). Ognuno di questi ha la necessità di essere trattato con rigore, intelligenza e completezza. Perciò ho trovato nel procedere scientifico il metodo più adeguato all’esigenza di vero che ho. Sono interessato per questo ad indagare tutto ciò che fa notizia e che spesso viene travisato o storpiato nel sentire comune, sia che abbia a che fare con l’alimentazione umana (da un punto di vista normativo o qualitativo) sia che abbia a che fare direttamente con la zootecnia.

Mi sto dedicando negli studi e nella tesi, e spero mi ci dedicherò anche per lavoro, alla gestione tecnico-economica delle stalle di vacche da latte, sia perché mi affascina moltissimo, sia perché è evidente l’utilità che ciò ha per molte persone. Io voglio portare il mio piccolo contributo per migliorare questo spicchio di mondo.

 

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Commenti

  1. Camilla Zoppolato Dice: luglio 4, 2015 at 8:30 am

    Ciao Andrea! Adesso ho capito che con aumento della biodiversità intendevi l’ampliamento del pool genetico del banano! La parola biodiversità è sempre molto ambigua e come ha scritto giustamente Pietro, se riusciamo capirci o meno dipende da come ciascuno intende questo termine.
    Sicuramente la questione del superamento della resistenza da parte del fungo non è necessariamente collegata all’uso degli ogm in senso generale, ma è un problema tipico della resistenza monogenica, ottenuta con o senza tecniche di ingegneria genetica.

  2. Andrea Pesenti Pietro Bertolotto Dice: giugno 30, 2015 at 2:31 pm

    Ciao a tutti :-)

    Bel discorso, mi inserisco e dico la mia.

    Nel caso di specie del banano l’inserimento del gene esogeno di resistenza al patogeno fungino è da considerarsi come strategia per salvaguardarne l’esistenza, ma in particolar modo la coltivazione della cultivar di banano in cui è stato inserito il dato costrutto. Sottolineo “coltivazione” perchè per la semplice conservazione sono predisposte apposite banche per la conservazione ex situ del germoplasma, come già accennato da Andrea. In questo caso l’operazione di ingegneria genetica non crea alcuna nuova variabilità genetica, propriamente intesa come “rimescolamento dei geni” e perciò è giusto parlare di “mantenimento” di biodiversità (anche se per il banano è praticamente zero), come fa notare Claudio. Poi è chiaro che dipende dall’accezione che si vuole fornire al termine “biodiversità”.

    Attualmente le applicazioni di ingegneria genetica non sono da intendersi come sostitutuzione al miglioramento genetico classico (questo si crea rimescolameneto genetico), bensì come semplice ma potente contributo alle tecniche correnti. A tel riguardo si dice che il “limite” dell’ingeneria genetica è quello di agire solo su singoli caratteri e “l’impilamento” di più geni è operazione ancora molto ardua.

    In ogni modo, come già detto da voi, la comparsa di resistenza è un importante fenomeno, del tutto “naturale”, che vede in azione l’eterna competizione per la vita. E bisogna ricordare che il trasferimento di geni di resistenza è ed è sempre stato un obiettivo del miglioramento genetico, con la sola differenza che oggi abbiamo a disposizione strumenti più efficaci e veloci che è sciocco non utilizzare. Come ben dici tu Andrea: “una freccia necessaria al nostro arco”.

    • Andrea Pesenti Dice: giugno 30, 2015 at 2:41 pm

      Si, cioè creerebbe variabilità genetica se si potesse poi incrociare tradizionalmente. Così è evidentemente dare al banano attuale una possibilità di resistere ancora, come diceva Claudio. Il tuo discorso mi convince rispetto all’aggiungere/conservare. Ci sta! Grazie.

  3. Camilla Zoppolato Dice: giugno 29, 2015 at 4:45 pm

    Ciao Andrea! Prima di tutto ti vorrei fare i complimenti, questo tuo post è davvero molto interessante! Tuttavia non mi è chiarissimo perché alla fine affermi che le biotecnologie potrebbero aumentare la variabilità genetica delle banane. Tralasciando il fatto che gli ogm sono una tecnologia sicuramente controversa e spinosa dal punto di vista sociale ed economico, non si rischia di riproporre una soluzione simile a quella che è stata la Cavendish per il Fusarium race 1? E anche se fosse possibile creare più varietà resistenti, la resistenza genetica introdotta con gli ogm non sarebbe facilmente superabile dal fungo nel breve periodo, dal momento che crea una pressione di selezione? Io penso che la soluzione e la prevenzione di a questo tipo di problemi stia appunto nell’aumentare la diversità genetica e varietale, ma non ho capito in che modo gli ogm potrebbero perseguire questa via.
    Grazie per aver approfondito un argomento così interessante!
    Camilla

    • Andrea Pesenti Dice: giugno 30, 2015 at 8:54 am

      Ciao Camilla! Mi fa piacere che ti abbia interessato! Grazie.
      Rispetto alla tua domanda la questione è complessissima. Premetto che per diversità genetica e varietale, che poi è la biodiversità, parlo di aumentare il numero di geni che si possano ricombinare. Penso che ogni soluzione vada più o meno incontro al problema che sollevi, cioè alla possibile “evoluzione” del fungo. Per minimizzare questo problema sarebbe necessario trovare più meccanismi di resistenza diversi per la pianta in modo che sia più difficile per il caso far avvenire mutazioni così precise e tutte insieme. Però il problema del banano è che la variabilità genetica naturale è bassissima. Quindi sembra che l’unico modo per aumentarla sia inserire dall’esterno nuovi geni. In questo senso le biotecnologie aumentano la variabilità genetica e la biodiversità. Cioè la possibilità di aggiungere geni in più che la popolazione non ha aumentando quindi il pool genetico a disposizione. Questo è quello che fa la natura facendo insorgere mutazioni nel corso della storia, cioè diversificando i geni nel corso dell’evoluzione. Purtroppo però la banana per la storia che ha non ha avuto questa possibilità (non per colpa dell’uomo). O meglio, si per colpa dell’uomo perchè mangiamo una cosa sterile. Se continuassimo a mangiare l’antenato avremmo sicuramente più variabilità. Però capisci che in questo caso o aspettiamo le mutazioni della natura, processo lungo e difficile (perchè non si sa se muterà mai in un carattere positivo) oppure controlliamo le modifiche e si aggiunge un gene con la biotecnologie. Si capisce un po’ di più? Anche perchè in generale aumentare la variabilità genetica di una pianta deve sempre andare di pari passo con la necessità di non snaturare i caratteri positivi della pianta di partenza a cui si vuol dare una caratteristica in più. E’ importantissima la banca genetica di ogni pianta, infatti per fortuna ci sono strutture apposta, ma nel banano non possiamo sfruttarla perchè non esiste nemmeno in natura. Pensa al mais comunque, semplifico, immagina di avere 100 geni per il mais (numero assurdo ma per fare le cose semplici ovviamente), con la modifica genetica aggiunge il gene (che non sarà solo uno, ma per semplicità) della produzione della tossina del BT. Ora abbiamo un mais con 101 geni. E’ aumentata la variabilità genetica del mais. Posto poi il fatto che questa aggiunta la fai per ogni varietà, non è un unico mais che viene modificato, e si capisce che aumenta il pool genetico a disposizione di ogni varietà. Si parla sempre di mais BT, ma i mais bt sono tanti diversi non una varietà sola.
      Poi è evidente che alla lunga si arriverà sempre alla resistenza del fungo, dell’insetto dell’infestante o cmq del problema a cui stai facendo fronte. E’ sempre così, è un problema di genetica e insito nell’agricoltura indipendentemente dagli ogm. Si tratta sempre di implementare e anticipare il problema. Pensa anche ad un caso in cui non hai possibili resistenze o cose simili, l’esempio de golden rice, il riso modificato geneticamente per avere più beta carotene. Aggiungendo i geni che condificano per la produzione di beta carotene aggiungi variabilità genetica a quel tipo di riso perchè aumenti il numero di geni che si possono “scegliere” durante la riproduzione del riso. Poi c’è tutto il problema di come viene intesa ora la biodiversità, che è un concetto stravolto e storpiato, ma questo è altro argomento!

    • Andrea Pesenti Claudio Cropano Dice: giugno 30, 2015 at 9:44 am

      Caro Andrea e cara Camilla,

      Penso che “l’aumento della variabilità genetica” attraverso l’uso delle biotecnologie non debba essere inteso come il risultato dell’inserimento di un gene in un genotipo che a quel punto si ritroverà con “un gene in più”. Forse il discorso è molto più semplice ma allo stesso tempo più ampio.
      Semplicemente l’uso delle biotecnologie evita che alcune varietà vadano estinte o che cadano in disuso in agricoltura.
      Dunque, penso sia più corretto parlare di un “mantenimento” della variabilità genetica.

      In passato, le biotecnologie hanno aiutato la sopravvivenza di varietà tipiche locali (vedi Papaya GM resistente al Papaya Ring Spot Virus adottata per salvare la Papaya, sulla cui produzione si reggeva l’intera economia locale della regione Puna nelle Hawaii).

      Non c’è alcun dubbio che il patogeno in futuro potrebbe superare la resistenza della pianta e così indurre nuovamente danni, una resistenza non è per sempre. Il breeding tradizionale cerca di creare delle varietà a resistenza duratura (a volte accontentandosi di una tolleranza) attraverso il “pyramiding”: costituire una resistenza che si basi su più livelli tramite la combinazione, nella stessa pianta, di più geni di resistenza. Una volta superato uno, il patogeno si troverà a fare i conti con un altro.
      Come avrai avrai avuto modo di leggere, il miglioramento tradizionale non è applicabile al banano e quindi quanto detto sopra non è possibile se non con tecniche di trasformazione.
      Inoltre, la probabilità di insorgenza di un nuovo genotipo tramite mutazioni spontanee è bassissima, una cosa sulla quale non fare affidamento.

    • Andrea Pesenti Dice: giugno 30, 2015 at 9:56 am

      Ciao Claudio, si sono d’accordo con te, ma credo che l’aggiunta di nuovo materiale genetico abbia il senso che dici tu, ma anche quello che dico io. Effettivamente comunque nell’immediato è preponderante l’aspetto che dici tu, è evidente. Però di mantenimento ne parli in popolazioni in cui la variabilità è ampia, molto ampia. Per esempio sulla totalità della variabilità genetica del pomodoro, perdere quella del pachino sarebbe negativo, non solo per il pachino in se, ma per la perdita genetica per tutto il pomodoro in genere. Ma in una popolazione come la banana, in cui la variabilità genetica è bassa, c’è necessità di aumentarla, non di preservarla. Quindi in questo caso ha senso a mio avviso parlare anche di “un gene in più” che poi è una sequenza.
      Quello che dici sulla resistenza a più livelli e sul breeding tradizione sulla banana è ciò che cercavo di dire! Cioè che non esiste sistema che impedisca il problema della resistenza. Grazie del commento

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