
Liguria. Eccomi in carne ed ossa alle prese con uno dei tanti muretti a secco che costantemente ‘vengono giù’, come si dice dalle mie parti.
I muretti a secco sostengono le ‘fasce’, i terrazzamenti coltivati – spesso olivati o vitati – e una volta crollati, vuoi per l’incuria, vuoi per i cinghiali, è un problema ‘tirarli su’. Non è questione di sola fatica, ma anche di tecnica, dal momento che non si usa cemento. Devi trovare il giusto incastro per la giusta pietra, è questione di occhio oltre che di tempo.
Ho sempre avuto una buona propensione per l’attività pratica, e devo ammettere che fare, o meglio rifare, muretti a secco mi riempie di soddisfazioni. Non è solo un assestamento di pietre, bene o male incastrate, ma il muretto a secco è parte di noi, della nostra agricoltura, della nostra storia e cultura, oltre a comporre integralmente il paesaggio che oggi tutti conosciamo. Perché no, è anche una forma d’arte!
Terrazzando scoscese pendici, dall’entroterra alla costa, l’uomo ha creato agricoltura laddove prima non era possibile coltivare quindi vivere. Il prezzo pagato è elevato in termini di sacrifici e sudore, ma in alcuni contesti la creazione di uno strato di suolo coltivabile è stata l’unica possibilità di sfuggire alla fame. In un certo senso, i muretti portano in loro il simbolo di povertà e caparbietà, di umiltà e ingegno allo stesso tempo. D’altra parte la Liguria non è mai stata una terra “abbondante” e perciò ci siamo creati la ‘parsimonia’ di cui siamo diventati proverbiali.
Dal secondo dopoguerra in poi, l’abbandono di quelle terre marginali, difficili e scarse è stato quasi un dovere voluto dal rapido cambio di vita imposto dal nuovo benessere. La stessa velocità con cui si è verificato il “rinselvatichimento” del territorio, il rapido fagocitarsi delle terrazze non più in uso da parte della macchia prima e del bosco poi.
Così ci troviamo a lottare contro qualcosa di più grande di noi. Una ricostruzione di Babele.
In ogni caso, questo è il risultato dello scorso week-end!