
Circa 925 milioni di persone sono cronicamente sottoalimentate e non sono in grado di avere un’alimentazione sufficiente tale da soddisfare i propri fabbisogni energetici. Prendendo in considerazione questo dato, per far fronte alle future richieste, la produzione mondiale di cibo e materie prime dovrebbe aumentare del 110% nei prossimi 40 anni.
Bisogna prendere però in considerazione alcuni fattori che potrebbero contrapporsi al raggiungimento di tale obiettivo. La richiesta di acqua dolce da parte delle aree urbanizzate ha addirittura superato quella impiegata in agricoltura, in più il cambiamento climatico a cui si sta assistendo, in parte imputabile alla pressione antropica sull’ambiente, può dar luogo a episodi di siccità riducendo ulteriormente le produzioni. Da qui nasce la sfida di accrescere la produzione di biomassa senza o con minimo aumento della superficie e con un impiego contenuto di acqua dolce ed energia fossile, riducendo gli effetti negativi sugli ecosistemi.
E’ necessario ricercare nuovi fonti di energia. Ad esempio orientandosi ai biocarburanti di origine agricola, che però aggravano la questione alimentare, asportando prodotti alimentari ed implicitamente usufruendo di una superficie destinabile alla coltivazione agricola. Per esser vantaggiosi, i biocarburanti devono essere prodotti senza ridurre terreni arabili e fornire significativi risparmi di emissioni di gas serra rispetto ai combustibili fossili.
Per questo, le microalghe potrebbero rappresentare una possibile soluzione. Queste, sono organismi fototrofi che ricavano l’energia per crescere dalla luce solare, responsabili di circa la metà dell’attività fotosintetica sulla terra. I principali vantaggi rispetto alle piante sono: una buona produttività (ad es. possono produrre 20-30 tonnellate di proteine per ettaro, più di 20 volte quella delle migliori colture proteiche come la soia); non richiedono terreno fertile potendo esser coltivate in zone marginali e terreni aridi; possono crescere su acqua salata riducendo il consumo di acqua dolce; non richiedono l’utilizzo di erbicidi o pesticidi e possono fissare anidride carbonica da diverse fonti, tra cui gas di scarico industriali sintetizzando co-prodotti di alto valore biologico.
Quindi: “perché le microalghe non sono ancora così diffuse?” Una forte limitazione è dovuta ai costi di gestione troppo elevati rispetto all’agricoltura convenzionale e al bilancio energetico non ancora positivo (dato dai costi per il pompaggio dell’acqua, il rimescolamento e la termostatazione, la fornitura di CO2 e nutrienti, la raccolta della biomassa e la sua trasformazione).
Le microalghe sono utilizzate per diverse applicazioni, la principale delle quali come integratori alimentari oppure in acquacoltura, ma anche per molti altri usi. Nel campo alimentare ad esempio sono già noti vari prodotti a base della famosa microalga spirulina (ammessa dalla Comunità Europea insieme al genere Chlorella), grazie alle importanti caratteristiche nutrizionali. Le microalghe potrebbero integrarsi alle attuali fonti alimentari, contengono infatti sali minerali come ferro e calcio, carotenoidi, acidi grassi polinsaturi (omega-3 e omega-6) e molte altre proprietà nutrizionali.
Molte microalghe hanno inoltre un elevato potenziale per essere impiegate nella produzione del biodiesel essendo estremamente ricche in olio, in alcuni casi arrivando all’80% del peso secco della biomassa algale, convertibile in biodiesel, avendo il potenziale di creare feedstock sufficienti per alimentare i trasporti, attualmente sostenuti dai carburanti derivati dal petrolio. E, se sottoposte a stress è possibile modulare la sintesi dei trigliceridi non polari, importanti appunto per la produzione del biodiesel.
Quindi, se riuscissimo ad avere produttività alte e stabili, potrebbe ridursi molto il costo di produzione della biomassa microalgale rendendo il prodotto concorrenziale con i prodotti agricoli, permettendo una reale integrazione ai prodotti alimentari tradizionali e/o ipotizzare un utilizzo efficiente a fini energetici.